Betty è una mia allieva. Quando arrivò per la prima volta nel mio studio, non mi parlò subito di fotografia. Le sue prime parole furono il racconto della sua malattia: il cancro.
Mi raccontò che per lei, la fotografia era solo un mezzo per cercare una nuova serenità. Nel suo stato d’animo ferito, sempre troppo sollecitato da brutti pensieri.
Betty aveva da poco finito il primo ciclo di chemioterapia preventiva. Aveva lo sguardo spento e il fisico debilitato, ma non era in debito di energia vitale.
Dopo qualche lezione dedicata al linguaggio visivo ed in particolare al suo modo di “vedere” attraverso la fotografia, mi chiese se me la sentivo di raccontare la malattia che l’aveva colpita ad appena trentacinque anni, ponendo fine al sogno di avere un figlio.
Fare fotografia sociale è sempre stato il mio mestiere, ma questa proposta diretta e senza filtri mi destabilizzò. Non ero preparato.
Prima di iniziare a realizzare delle immagini ci siamo confrontati a lungo, sia sulla fotografia come mezzo di comunicazione, ma anche sulla malattia che le aveva cambiato la vita. Abbiamo lavorato con metodologia e determinazione, entrambi avevamo il desiderio di intraprendere un percorso narrativo che raccontasse l’odissea quotidiana di chi vive il cancro, ma anche di far emergere il sogno futuro per continuare a vivere una vita normale.
Purtroppo durante lo svolgimento del nostro progetto, Betty ha avuto la malaugurante sorpresa di una recidiva alla malattia. Dopo qualche breve periodo di sconforto in cui ci siamo bloccati, è ritornata la necessità di continuare a raccontare.
Betty mi ha chiesto di riprendere a fare fotografie, di documentare il suo quotidiano e il suo impegno nella lotta contro il cancro.
Dopo il secondo ciclo di chemioterapia e una risonanza magnetica di controllo, fortunatamente negativa, anche il nuovo “diavolo” è stato sconfitto.
Oggi a distanza di anni, Betty sta bene e ha ripreso la sua vita normale.